«Disegnare la faccia del vino»: Giancarlo Ferraris tra arte, ispirazione e committenza.

«Disegnare la faccia del vino»: Giancarlo Ferraris tra arte, ispirazione e committenza.

Dall’incontro con Michele Chiarlo, avvenuto negli anni ’80 durante una mostra, Giancarlo Ferraris non ha più smesso di illustrare il vino. Lo ha fatto a fianco di Michele e dei figli Alberto e Stefano Chiarlo, inaugurando una sorta di simbiosi tra enologia e pittura che, come lui stesso ammette, è una «maratona di idee in cui non si sa più più dove inizia il produttore di vino e finisce l’artista».

Classe 1950, Ferraris è pittore, illustratore, grafico e incisore. Molto legato al territorio astigiano, da 40 anni realizza le etichette per Michele Chiarlo «che ho plasmato con le mie opere e dal quale sono stato riplasmato», ammette. Sue sono, soltanto per fare qualche esempio, le illustrazioni che vestono il Barolo Cerequio, il Barolo Cannubi, il Barbaresco Asili e il Nizza Riserva La Court che, nel 2000, vinse il premio internazionale Etichetta dell’anno. Suo è il cielo blu del Nizza Cipressi, diventato un’icona stilistica ed enologica di Michele Chiarlo. Ma Giancarlo Ferraris è anche il direttore che diede vita all’Art Park La Court. Fu lui a chiamare a raccolta Emanuele Luzzati, Balthasar Brennenstuhl, Marcello Mannuzza, Fabio Albino Cavanna, Peppino Campanella, Dedo Roggero Fossati e, più recentemente, Ugo Nespolo e Chris Bangle. Raccolse e coordinò il loro lavoro in una sorta di «Factory warholiana» dove arte e artigianato si fondevano per dar vita al primo museo a cielo aperto fra i vigneti del Monferrato.

Ferraris, come avvenne l’incontro con Michele Chiarlo?

Erano i primi anni ’80. Michele venne a una mia mostra e mi volle incontrare. Io allora ero un pittore esordiente, realizzavo acquerelli in grande formato. Insegnavo arte pittorica al Liceo Artistico di Torino, dove vivevo. Scoprimmo di essere conterranei, io di Canelli lui di Calamandrana. Mi propose, da subito, di realizzare le etichette per i suoi vini. Mi colpirono la sua apertura mentale, frutto dei viaggi all’estero, e il coraggio dell’innovazione. Voleva cambiare drasticamente il modo di illustrare il vino, lasciandosi alle spalle la tradizione.

Che tipo di etichette si realizzavano allora?

Erano etichette senza anima. Tutte uguali. Carta gialla o bianco sporco con il nome del vino scritto in caratteri gotici o corsivi. Capeggiate dallo stemma di famiglia, erano incorniciate da bordini verde fango. Michele voleva qualcosa di più identitario, colorato, aggressivo. Qualcosa in cui si rispecchiasse la qualità del vino, ma anche la sua personalità. L’etichetta doveva essere un piacere da bere e da osservare. Voleva essere orgoglioso delle sue bottiglie anche sotto l’aspetto scenografico. Fui colpito dalla modernità delle sue idee e non mi tirai indietro. Insieme siamo diventati la “testa di ariete” che ha sfondato la parete di una tradizione iconografica ormai esausta.

Estro e committenza, come interagiscono questi due opposti?

È una questione delicata. Fino ad allora, i miei quadri dovevano solo piacere – o non piacere – alle persone che li giudicavano. Ora dovevo fare i conti con una presenza che entrava nel mio stesso processo creativo, indirizzandomi verso un risultato atteso. La mia fortuna è che ho sempre trovato in Michele Chiarlo – e oggi nei suoi figli – un desiderio autentico di bellezza. I Chiarlo credono nel loro prodotto e hanno sempre dato valore al mio lavoro. Non ho mai vissuto la committenza come un’imposizione, ma un binario da percorrere fino in fondo. Un processo faticoso, estenuante. A volte gli incontri con Michele erano una vera e propria maratona di idee, uno scambio continuo. Alla fine, però, la sorpresa del risultato si arricchiva di tutti i punti di vista e ci appagava enormemente.

Se il vino è un’arte, l’arte cosa può aggiungere al vino?

Come ho scritto nel libro Il segno dei filari arancioni (che raccoglie gran parte delle etichette realizzate per Chiarlo n.d.r), la mia pittura ha contribuito a «disegnare la faccia del vino». In altre parole, applicare un segno artistico alle etichette di un produttore e farlo in maniera continuativa – come avvenuto con Chiarlo – aiuta l’intera gamma ad avere un “collante formale”. È una coerenza stilistica che, proprio grazie ai tratti del disegno e della pittura, acquista un carattere scenografico. È la manifestazione di una interiorità misteriosa, proprio come il volto esprime le emozioni che abbiamo dentro. Si potrebbe dire che l’arte aumenta il carisma del vino e crea una “convinzione” maggiore. Non solo nei confronti di chi lo acquista, ma anche di chi lo vende. Un’etichetta in cui il produttore si riconosce sarà sempre più facile da “piazzare” di una verso cui non prova sentimenti.