Alessandro Masnaghetti: «Le mie mappe per un’etica della comunicazione del vino»

Alessandro Masnaghetti: «Le mie mappe per un’etica della comunicazione del vino»

Ingegnere nucleare, gastronomo, giornalista. Degustatore di vini per oltre 25 anni. Allievo e amico di Veronelli. Si potrebbero usare molti appellativi per descrivere Alessandro Masnaghetti, ma quello con cui è diventato celebre nel mondo lo ha coniato Wine Spectator in un articolo di qualche anno fa: Map Man, l’«uomo delle mappe», il «cartografo del vino».

Lui lo rivendica con fierezza, specificando che l’idea di cartografo è però riduttiva: «Quando disegno una mappa non sono interessato solo ai confini di un vigneto – racconta – ma alla storia, alla cultura, alle condizioni pedoclimatiche, all’enologia, alla conoscenza dei produttori, alle migliaia di degustazioni effettuate sul territorio. La mappa di un vigneto è un’operazione a 360 gradi, che coinvolge conoscenze specifiche in più settori. La geografia, in fondo, è solo l’aspetto esteriore di un Cru, che è un contenuto di natura e umanità».

Alessandro Masnaghetti, partiamo proprio da qui, che cos’è per lei un Cru?

Come mi disse una volta Beppe Colla: «ci sono tantissime buone vigne nel mondo. Ma il vero Cru è quello dove il vino matura un carattere specifico». Dunque il Cru non coinvolge solo la qualità del vino, ma la sua identità.

Perché ha deciso di dedicarsi alle mappe del vino?

È bene precisare che la mia passione per le mappe deriva da oltre 25 anni di degustazioni. Prima di essere cartografo ho assaggiato e recensito migliaia di vini, conosciuto i territori e i produttori, indagato la storia e la cultura di moltissime aree vitivinicole in Italia e nel mondo. Le mappe sono diventate uno strumento per mettere ordine. La visualizzazione cartografica del vino ti permette di avere moltissime informazioni in una forma sintetica ed efficace, a colpo d’occhio.

Ricorda il suo primo lavoro legato alle mappe?

Bisogna risalire al ’94, quando ancora lavoravo per Gino Veronelli. Gli proposi di realizzare la carta dei vigneti della denominazione Barbaresco a partire dai tre comuni: Barbaresco, Treiso e Neive. Lui ne fu entusiasta, il pubblico, purtroppo, molto meno. Ricordo che la prima mappa, dedicata al Comune di Barbaresco, vendette pochissimo. Sospendemmo il progetto e migliaia di quelle cartine finirono a marcire nel fienile di Gino. Ne ho salvate solo una ventina di copie.

Marcì la prima mappa, ma non la passione.

Tra il 2005 e il 2006, attraverso le newsletter di Enogea, proposi le mappe dei vigneti di Panzano in Chianti e Castiglione Falletto. Memore del primo insuccesso, decisi di realizzarle in formato piccolo. Piacquero molto e cominciai a seguire questa strada: una pubblicazione preliminare su Enogea e poi, se le cose fossero andate bene, una versione più grande. Dal 2015 il mio lavoro si è specializzato quasi esclusivamente sulla cartografia del vino, con centinaia di zone mappate e importanti lavori realizzati per molti Consorzi.

Oggi sono proprio i Consorzi e le aziende ad utilizzare le sue mappe. Si è fatto un’idea di come il suo lavoro ha favorito il marketing del vino?

Ogni mappa nasce dal mio background da giornalista: prima di essere uno strumento di marketing vuole presentare una ricerca di dati, fatti e nozioni il più possibile oggettivi. Sono contento che vengano usate per comunicare un territorio o un determinato Cru, perché favoriscono la diffusione di informazioni verificate, di natura non pubblicitaria. Il vero intento del mio lavoro è quello di riavvicinare le persone alle radici, di creare una consapevolezza della tradizione su basi scientifiche e documentate.

L’informazione del vino secondo lei non è attendibile?

A volte è confusa, contraddittoria, piena di nozioni non verificate e leggende, spesso creata ad hoc per esaltare un certo aspetto a discapito di altri. Oggi che i produttori sono diventati i primi comunicatori del loro vino, bypassando i media tradizionali, hanno bisogno di strumenti validi, condivisi e condivisibili su cui basare le informazioni. Il mio lavoro – e quello di molti altri ottimi ricercatori sul campo – dovrebbe favorire lo sviluppo di un’etica della comunicazione vitivinicola. Una sorta di vademecum scientifico, attendibile e accessibile da tutti, da cui attingere a piene mani per evitare la confusione e la proliferazione di informazioni errate (a volte palesemente false) che confondono gli appassionati e, a lungo andare, minano la fiducia tra i consumatori, i produttori e il territorio. Una zona come quella delle Langhe – solo per fare un esempio – merita una comunicazione di questo genere. Non serve mentire, falsificare o ingigantire nulla: la realtà è la storia più bella da raccontare.